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Replying to Eneide - Libro 3, vv. 13-68
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† Infernus †Posted: 2/5/2009, 09:57
Terra procul vastis colitur Mavortia campis Thraces arant acri quondam regnata Lycurgo, hospitium antiquum Troiae sociique penates dum fortuna fuit. feror huc et litore curvo moenia prima loco fatis ingressus iniquis Aeneadasque meo nomen de nomine fingo. sacra Dionaeae matri divisque ferebam auspicibus coeptorum operum, superoque nitentem caelicolum regi mactabam in litore taurum. forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo virgulta et densis hastilibus horrida myrtus. accessi viridemque ab humo convellere silvam conatus, ramis tegerem ut frondentibus aras, horrendum et dictu video mirabile monstrum. nam quae prima solo ruptis radicibus arbos vellitur, huic atro liquuntur sanguine guttae et terram tabo maculant. mihi frigidus horror membra quatit gelidusque coit formidine sanguis. rursus et alterius lentum convellere vimen insequor et causas penitus temptare latentis; ater et alterius sequitur de cortice sanguis. multa movens animo Nymphas venerabar agrestis Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis, rite secundarent visus omenque levarent. tertia sed postquam maiore hastilia nisu adgredior genibusque adversae obluctor harenae, eloquar an sileam? gemitus lacrimabilis imo auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris: 'quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto, parce pias scelerare manus. non me tibi Troia externum tulit aut cruor hic de stipite manat. heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum: nam Polydorus ego. hic confixum ferrea texit telorum seges et iaculis increvit acutis.' tum vero ancipiti mentem formidine pressus obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit. Hunc Polydorum auri quondam cum pondere magno infelix Priamus furtim mandarat alendum Threicio regi, cum iam diffideret armis Dardaniae cingique urbem obsidione videret. ille, ut opes fractae Teucrum et Fortuna recessit, res Agamemnonias victriciaque arma secutus fas omne abrumpit: Polydorum obtruncat, et auro vi potitur. quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames. postquam pavor ossa reliquit, delectos populi ad proceres primumque parentem monstra deum refero, et quae sit sententia posco. omnibus idem animus, scelerata excedere terra, linqui pollutum hospitium et dare classibus Austros. ergo instauramus Polydoro funus, et ingens aggeritur tumulo tellus; stant Manibus arae caeruleis maestae vittis atraque cupresso, et circum Iliades crinem de more solutae; inferimus tepido spumantia cymbia lacte sanguinis et sacri pateras, animamque sepulcro condimus et magna supremum voce ciemus.

Una terra Mavorzia lontano dalle vaste pianure è abitata, l’arano i Traci, governata un tempo dal duro Licurgo, antica ospitalità e penati alleati di Troia finch ci fu fortuna. Sono portato qui e sul lido ricurvo fondo le prime mura, entrato con fati avversi, e dal mio nome formo il nome di Eneadi. Portavo doni sacri alla madre dionea ed ai divini auspici delle imprese iniziate, ed al celeste re dei dei offrivo un toro splendente sul lido. C’era per caso un’altura, sulla cui sommità virgulti di corniolo ed un mirto irto di fitte lance. Mi avvicinai tentando di strappare da terra una verde pianta, per coprire di rami frondosi gli altari, e vedo un prodigio spaventoso e mirabile a dirsi. Infatti la pianta che per prima, rotte le radici, è divelta, a questa si sciolgono gocce di nero sangue e macchiano la terra di marcio. Un freddo fremito mi scuote le membra ed il sangue gelido scorre con terrore. Di nuovo proseguo a strappare il flessibile rametto di un’altra e scoprire del tutto le cause latenti; nero sangue esce anche dalla corteccia dell’altra. Meditando molto in cuore veneravo le Ninfe agresti ed il padre Gradivo, che protegge i campi Getici, favorevolmente assecondassero le visioni e togliessero il presagio. Ma dopo che con maggior sforzo afferro il terzo rametto e con le ginocchia lotto con la sabbia avversa, - parlare o tacere?- si sente dalla profondità dell’altura un gemito lacrimevole e la frase data sale alle orecchie: “Perchè, Enea, torturi un infelice? orma risparmia un sepolto, risparmia di macchiare le pie mani. Troia non mi pose estraneo a te o questo sangue non emana da un legno. Ahimè fuggi terre crudeli, fuggi un lido avido: io sono Polidoro. Qui trafitto mi coprì una messe ferrea di dardi e crebbe in acute lance.” Allora davvero oppressa la mente da dubbioso terrore stupii si drizzarono i capelli e la frase si bloccò nella gola. Questo Polidoro un tempo lo sventurato Priamo l’aveva affidato da crescere al re Tracio di nascosto con una gran quantità d’oro, diffidando orma per le armi della Dardania e vedendo che la città era cinta d’assedio. Quello, come furono rotte le forze dei Teucri e la fortunata andata, seguendo le sorti d’Agamennone e le armi vincitrici rompe ogni norma: sgozza Polidoro e s’impossesso dell’oro con la violenza. A cosa non spingi i cuori mortali, maledetta fame di oro. Dopo che la paura lasciò le ossa, riferisco i prodigi degli dei ai capi scelti del popolo e prima al padre, e chiedo quale sia il parere. Per tutti una sola volontà, andarsene dalla terra scellerata, lasciare l’ospitalità macchiata e dare gli Austri alle flotte. Così celebriamo il funerale per Polidoro, e molta terra si raccoglie per il tumulo; per i Mani si ergono gli altari tristi per le fosche bende ed il nero cipresso, e le Iliadi attorno secondo il rito, sciolte la chioma; offriamo vasi spumanti di tiepido latte e tazze di sangue sacro, copriamo l’anima col sepolcro e lo chiamiamo per l’ultima volta a gran voce.